Tutte le partite ufficiali della stagione |
G. |
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9 |
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N |
16 |
31 |
8 |
7 |
1 |
28 |
12 |
T |
La Juventus dal 1900 ad oggi |
Gare ufficiali |
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Serie A |
4.579 |
Giocate |
3.088 |
2.508 (54,77%) |
Vittorie |
1.699 (55,02%) |
1.172 (25,60%) |
Pareggi |
836 (27,07%) |
899 (19,63%) |
Sconfitte |
553 (17,91%) |
8.194 |
Fatti |
5.378 |
4.459 |
Subiti |
2.910 |
C. Europee |
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Era 3 pti (uff.) |
512 |
Giocate |
1.557 |
281 (54,88%) |
Vittorie |
927 (59,54%) |
113 (22,07%) |
Pareggi |
369 (23,70%) |
118 (23,05%) |
Sconfitte |
261 (16,76%) |
871 |
Fatti |
2.737 |
472 |
Subiti |
1.378 |
Tutti i numeri della Juventus |
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Pubblicato il 02.12.2004
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Armando Picchi e la Juventus
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di Bidescu
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Armando Picchi arrivò a Torino nell’estate del 1970: aveva trentacinque anni ed un patentino di allenatore di seconda categoria. Alla Juventus non era mai arrivato un allenatore così giovane, ma si respirava aria di grandi cambiamenti: il presidente Vittore Catella stava per passare la mano a Boniperti, con Italo Allodi fresco general manager. Il decennio si era aperto con due scudetti, ma per il resto aveva riservato risultati mediocri, impennata di Heriberto Herrera a parte, ed aveva anche portato la grande paura della retrocessione. C’era voglia di rinascere e Picchi sembrava proprio l’uomo giusto per rinverdire i fasti passati. Diceva Boniperti: «É giovane, serio, preparato, soprattutto ha una rabbiosa voglia di sfondare...» Era arrivato in serie A venticinquenne: Paolo Mazza lo aveva acquistato dal Livorno in serie C per lanciarlo in una sorprendente Spal, classificatasi al quinto posto. L’Inter lo aveva preso subito, lasciando alla Juventus il suo compagno di difesa, il più modesto Bozzao, ed erano stati sette anni indimenticabili, scudetti e coppe europee e coppe mondiali e, sulla soglia della trentina, anche la prima di dodici maglie azzurre. Interprete per antonomasia, del ruolo di “libero», ultimo baluardo davanti al portiere in mille battaglie seguite con il cuore in gola da milioni di spettatori, leader tattico ma soprattutto umano e morale della sua squadra, sindacalista coraggioso ed altruista, quando i calciatori non avevano alcun diritto. Armando Picchi è l’esempio, uno dei pochi nella storia del calcio, del campione che conosce e difende con coerenza i grandi valori che nutrono le società civili: il rispetto degli altri, il coraggio delle proprie scelte, lo spirito di indipendenza, la serietà professionale, la solidarietà, l’amicizia, il senso profondo delle proprie radici. Livornese purissimo, una famiglia di marinai, un nonno anarchico ed un nonno repubblicano costretto all’esilio, egli portò nella “Grande Inter” del “mago” Helenio Herrera e di Moratti tutto lo spirito ribelle ed irriverente, ma anche combattivo ed indomabile, ereditato dalla sua terra e dalla sua famiglia. Gli scontri con Herrera erano all’ordine del giorno: «Il “mago” non lo avevo capito», confidò un giorno Picchi «e non credevo di poterlo capire. Ero troppo diverso. diciamo troppo indisciplinato. Capii che dovevo cambiare e basta. Sono diventato un altro.» E molti, che non amavano Herrera, vedevano in lui il vero allenatore in campo, lo stratega di tante grandi vittorie. Lo chiamavano “Penna Bianca” e lui comandava davvero, capace in partita di prendere per la maglia un compagno e, mostrandogli la fascia di capitano, urlargli in faccia: «Cos’è questo ??? Uno straccio ??? Ed allora fa come ti dico !!! E dopo fa pure la spia al “mago” !!!» Poi l’esilio in provincia a Varese, dopo l’ennesima polemica con il “mago”. Dopo un’estate di studi a Coverciano, era diventato l’allenatore-giocatore della squadra biancorossa, figura ormai in uso solo nel campionato inglese (quando lui era in campo, dalla panchina lo aiutava Sergio Brighenti). La partita dell’addio l’aveva giocata a Firenze. Era una domenica triste, piena di amara rassegnazione: lui, livornese, costretto ad assistere, a “fare la spalla”, al trionfo dei vecchi rivali fiorentini, neo-campioni, mentre il suo Varese retrocedeva per un punto in serie B. Il destino non fu mai tenero con lui. Un grave incidente, durante un incontro con la Nazionale, ne stroncò la carriera. Era il 6 aprile del 1968, a Sofia si giocava Bulgaria- Italia, era l’andata dei quarti di finale degli Europei. Al 24’ minuto del primo tempo, Picchi intervenne a chiudere una discesa del mediano Yakimov. Uno scontro terribile; lo portarono negli spogliatoi, aveva rimediato una commozione cerebrale. Lui chiese di rientrare e rientrò; si mise all’ala, sulla fascia. Rimase fermo, “immobile come una statua”, senza poter intervenire, forse senza capire nemmeno il perché. Era ritornato in campo con una commozione cerebrale e con l’osso pubico fratturato. Iniziò, come allenatore, sulla panchina del suo Livorno in serie B, nella stagione 1969-70, a campionato iniziato. Lo chiamò il fratello Leo ed Armando rispose; gli amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il girone d’andata. Il Livorno si salvò, chiudendo al nono posto. Poi arrivò la proposta di Italo Allodi, figura storica del calcio nostrano, re del mercato, architetto della Grande Inter. Era la stagione 1970-71, ed a 35 anni Picchi, il più giovane allenatore della serie A, sedeva sulla panchina della “Signora” più blasonata e temuta d’Italia, quella bianconera. Alla Juventus fu accolto con grande ammirazione, quella che meritano i grandi. leali avversari di un tempo. Debuttò con una vittoria, a Catania, poi vennero le prime difficoltà a causa di una squadra che era stata costruita con giovani di belle speranze che muovevano i primi passi della loro gloriosa carriera che li avrebbe trasformati in campioni e veterani che fungevano da “chiocce”. Franco Causio, leccese sanguigno dal talento cristallino; Roberto Bettega, che in area avversaria svettava sempre su tutti; Fabio Capello che disegnava geometrie a centrocampo; Pietruzzo Anastasi il saraceno, bomber di razza eccelsa; poi Tancredi in porta; Spinosi e Marchetti; Furino, Morini e Salvadore; il tedesco Haller ed il sardo Cuccureddu. Ci furono le sconfitte con il Milan di Rocco ed a Napoli, una limpida vittoria proprio su Herrera, che guidava la Roma, una sconfitta a Milano con l’Inter ed una bella vittoria a Firenze; fu un alternarsi di risultati che diede la sensazione che qualcosa di buono stesse maturando per un futuro glorioso e, che non fosse una sensazione illusoria, lo dimostra la vittoria dello scudetto dell’anno dopo. La Juventus finì il girone di andata al quarto posto e cominciò il ritorno con un clamoroso cinque a zero sul Catania. Quella sera di fine gennaio Picchi fu invitato in televisione alla “Domenica sportiva”. Accettò l’invito, a patto che fosse accompagnato da Anastasi. Pietruzzo era il centravanti della Nazionale, ma non stava attraversando un periodo di grande forma e Picchi lo aveva lasciato fuori squadra proprio nella partita contro i siciliani. Il presentatore della trasmissione, Alfredo Pigna, disse che, essersi presentato con Anastasi «era una cosa da Picchi.» Difficile dimenticare quella domenica; dopo i filmati e le interviste di rito, Picchi lasciò in fretta gli studi. «non mi prenda per maleducato, signor Pigna, ma non mi sento niente bene.» Otto giorni più tardi, a Bologna, la Juventus sta perdendo uno a zero, goal di Marino Perani su errore del portiere Tancredi. Mancava un quarto d’ora alla fine quando volarono spintoni e schiaffi tra il “barone” Causio ed il terzino del Bologna, Roversi. Intervenne Spinosi, nel parapiglia entrarono in campo i due allenatori: “Mondino” Fabbri e Picchi. L’arbitro era un giovane delle ultime leve, Gaetano Mascali di Desenzano sul Garda. Tirò fuori il taccuino ed espulse Causio e Roversi, poi anche Picchi che ne disse qualcuna di troppo. «Non è mai successo», mormorò qualcuno in tribuna, «che un allenatore della Juventus sia stato espulso». Picchi uscì dal campo con aria seccata, le mani infilate nelle tasche del cappotto, il bavero alzato sul volto scavato, non solo dall’arrabbiatura, ma questo lo si scoprirà più tardi. I fotografi scattarono le loro fotografie senza immaginare che sarebbero state le ultime di Picchi. Sullo sfondo si nota l’arbitro che segue con sguardo severo, l’uscita dal campo dell’allenatore; gli è vicino Cuccureddu, le mani sui fianchi. L’ultimo sole di una domenica di febbraio illumina, lontano, il muro di folla; così Armando Picchi, vecchio “Penna Bianca”, lasciò per sempre i campi di calcio. Entrò in clinica pochi giorni dopo; la prima diagnosi parlò di “mialgia sottoscapolare”, poi, dopo un nuovo consulto, nel perdurare di dolori atroci, emerse la verità: Armando soffriva di un male incurabile. Operato inutilmente a Torino, venne trasferito in Liguria, a San Romolo, dove morirà il 26 maggio, un mercoledì, mentre i suoi ragazzi stavano giocando la finale di Coppa delle Fiere (l’attuale Coppa Uefa), contro il Leeds. Erano le quattro di pomeriggio, l’ora piena delle partite.
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