Tutte le partite ufficiali della stagione |
G. |
Pti |
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Par |
Sco |
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Sub |
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9 |
16 |
4 |
4 |
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12 |
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C |
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3 |
0 |
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7 |
F |
0 |
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0 |
N |
16 |
31 |
8 |
7 |
1 |
28 |
12 |
T |
La Juventus dal 1900 ad oggi |
Gare ufficiali |
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Serie A |
4.579 |
Giocate |
3.088 |
2.508 (54,77%) |
Vittorie |
1.699 (55,02%) |
1.172 (25,60%) |
Pareggi |
836 (27,07%) |
899 (19,63%) |
Sconfitte |
553 (17,91%) |
8.194 |
Fatti |
5.378 |
4.459 |
Subiti |
2.910 |
C. Europee |
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Era 3 pti (uff.) |
512 |
Giocate |
1.557 |
281 (54,88%) |
Vittorie |
927 (59,54%) |
113 (22,07%) |
Pareggi |
369 (23,70%) |
118 (23,05%) |
Sconfitte |
261 (16,76%) |
871 |
Fatti |
2.737 |
472 |
Subiti |
1.378 |
Tutti i numeri della Juventus |
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Pubblicato il 04.11.2004
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Meazza e Piola alla Juventus !!!
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di Bidescu
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Alla Juventus è capitato anche di far indossare la maglia bianconera a due monumenti del calcio che storicamente erano l'emblema di club rivali, Giuseppe Meazza e Silvio Piola. Uno era l'uomo dell'Ambrosiana, l'avversaria più accanita negli anni dei cinque scudetti; l'altro, prima di finire alla Lazio, dove sarebbe stato capace di infilare nella porta juventina anche quattro goals in una partita, aveva rappresentato l'ultima leggenda della gloriosa Pro Vercelli, caposaldo di un calcio provinciale e romantico fatto di aspre rivalse indigene sulla vicina Torino («Macché Gualino, macché Agnelli, la Pro Vercelli trionferà» cantava l'ingenuo tifoso di allora e mostrava striscioni con «Dove passa la Pro non passa la Juve» oppure «Il leone sbrana la zebra»: altro che ultras, fosse, brigate ed "hoolingans" di oggi). Arrivarono, Meazza e Piola, in momenti molto particolari: Meazza mentre si giocava un campionato che, tra bollettini di guerra ed allarmi aerei, non si sapeva se sarebbe mai arrivato alla fine, Piola quando il calcio ricominciò, dopo lo sfacelo della guerra. Il "Pepp" di Porta Romana (era nato, nel cuore della Milano popolare) aveva ormai trentadue anni, anche se lo chiamavano ancora "Balilla". Erano molto lontani i tempi di una canzoncina molto in voga: «La donzelletta vien dalla campagna, leggendo la Gazzetta dello Sport e come ogni ragazza, lei va pazza per Meazza, che fa reti a tempo di fox-trot.» Di goals ne aveva segnati quasi duecentocinquanta per i colori dell'Inter, anzi dell'Ambrosiana come si diceva allora, e l'ultimo in nazionale (quello epico, su rigore, contro il Brasile, tenendosi i calzoncini perché s'era rotto l'elastico) risaliva ad oltre quattro anni prima. La sua lunga storia, che faceva parte del costume italiano anni trenta, aveva subito brusche svolte: prima il "piede gelato", poi l'incredibile passaggio sulla sponda rossonera, al Milan, anzi al Milano come si diceva allora, dove aveva disputato un campionato e mezzo. Firmò il contratto per la Juventus sdraiandosi, per scrivere meglio, sull'erba del "Comunale" dopo aver interrotto l'allenamento, già in maglia bianconera. Il suo debutto (18 ottobre 1942) avvenne in un derby. Il Torino era all'alba della sua memorabile stagione e schierava già il mitico attacco, da Menti a Ferraris. Si era alla terza giornata, nelle prime due la Juve aveva solo pareggiato. Meazza scese in campo con il numero otto, aveva intorno vecchi compagni del mondiale vinto a Parigi (Foni e Locatelli), Carletto Parola, un centravanti albanese (Lushta), il più giovane dei Varglien: l'altra mezzala era Sentimenti III, fratello del portiere Cochi. Non fu un esordio molto felice. Meazza era poco allenato, sembrava addirittura ingrassato, lento nei movimenti. Così quando entrò in area a tu per tu con il portiere Cavalli, mentre la folla si aspettava uno dei suoi celebri "goal ad invito", non ebbe la necessaria rapidità di movimenti e finì per perdere ingloriosamente il pallone. La partita fu poi vinta dal Torino cinque a due. Le cose andarono meglio in seguito, Meazza si spostò al centro dell'attacco e regalò alla Juve dieci goals: ne segnò due anche alla sua Ambrosiana e quello che fece all'Arena fu quasi uno sberleffo alla nostalgia. Disputò ventisette partite su ventotto: l'addio fu un disastro collettivo, la Juventus, terza in classifica, fu travolta a Torino dal Vicenza che doveva salvarsi. Un incredibile sei a due al quale non badò nessuno: era l'ultima domenica di calcio e la guerra stava per cancellare il campionato, insieme a tante altre cose della vita di tutti i giorni. Due anni dopo, metà ottobre 1945, si tornava a calciare il pallone, uno dei primi segni della vita che ricominciava. Ed ecco per la Juventus un altro nome mitico: Silvio Piola, trentaduenne, già oltre la metà della sua lunghissima carriera che doveva riservargli ancora una maglia azzurra, a quasi quarant'anni. Piola era stato nella Pro Vercelli e nella Lazio, i suoi goals in serie A erano quasi duecento. Se per Meazza si parlava di genio del tempo e del tocco, lui sembrava una sorta di cavaliere antico che sfondava con gesti poderosi e veloci. Segnava spesso in acrobazia, di preferenza col pallone uncinato a mezz'aria e spedito rapidamente in rete, senza che il portiere avversario potesse accorgersi di niente. Durante la guerra aveva indossato la maglia granata del Torino-Fiat nel campionato di guerra, non ufficiale e, lanciato da Loik e Mazzola, aveva segnato qualcosa come 27 goals in ventisei partite. II suo passaggio alla Juve nacque da un mancato accordo con la Lazio, che voleva pagarlo a percentuale sugli incassi; rifiutò e preferì lo stipendio sicuro di Madama. Come Meazza, debuttò in maglia bianconera in un derby, ma fu nettamente più fortunato del suo predecessore: proprio lui segnò il goal della vittoria battendo, su rigore, Bacigalupo. Era un buon inizio per la Juve e per il suo cannoniere annunciato (avrebbe fatto sedici goals) protagonista di un grande campionato, tra compagni come Coscia e Sentimenti III, Magni e Borel II, nonostante prolungate assenze per malanni muscolari che lui attribuiva alla scarsa preparazione del tempo di guerra ed alle lunghe soste in piedi nei treni affollati durante le trasferte. Fu una lunghissima stagione che lo portò molto vicino allo scudetto, come non gli era mai successo e come non gli sarebbe più capitato. Perché Piola, campione del mondo, due volte capocannoniere, recordman assoluto dei goals segnati in Italia, non è mai riuscito ad essere, almeno una volta, campione d'Italia. E questa del 1946 rappresentò la grande occasione. C'era, è vero, il "Grande Torino" a dettar legge, ma il più lungo campionato della nostra storia, prima diviso in due spezzoni, poi con un girone finale, aveva in serbo una sorpresa. Quando si arrivò a metà luglio, a due domeniche dalla fine, la Juventus era due punti davanti al Torino: Piola l'aveva trascinata in una sequenza di sette vittorie consecutive. C'era però da giocare ancora il derby, alla penultima giornata e fu un derby che oggi si definirebbe drammatico, ma allora un aggettivo simile rievocava tragedie appena finite, fu un gran duello di centravanti: lo vinse l'ex Gabetto, autore del goal vittoria. Così le due rivali affrontarono alla pari l'ultima fatica, il Torino coprì il Livorno di goals, la Juventus tentò disperatamente di vincere a Napoli, ma riuscì solo a pareggiare,dopo essere stata addirittura in svantaggio, proprio con Piola che poi ne sfiorò altri in mischie rabbiose, il cuore in tumulto e la furia che sembrava quella dei tempi vercellesi. Piola rimase alla Juventus per un altro anno. Fu un buon campionato, che lo vide giocare mezzala e, nonostante il cambio di posizione, segnare altri dieci goals. L'ultimo a Venezia, a raddoppiare il vantaggio ottenuto da un ragazzino biondo che indossava la maglia numero nove e che avrebbe fatto parlare molto di sè. Quel ragazzino era Giampiero Boniperti.
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