Tutte le partite ufficiali della stagione |
G. |
Pti |
Vit |
Par |
Sco |
Fat |
Sub |
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9 |
16 |
4 |
4 |
1 |
12 |
5 |
C |
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15 |
4 |
3 |
0 |
16 |
7 |
F |
0 |
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0 |
0 |
0 |
N |
16 |
31 |
8 |
7 |
1 |
28 |
12 |
T |
La Juventus dal 1900 ad oggi |
Gare ufficiali |
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Serie A |
4.579 |
Giocate |
3.088 |
2.508 (54,77%) |
Vittorie |
1.699 (55,02%) |
1.172 (25,60%) |
Pareggi |
836 (27,07%) |
899 (19,63%) |
Sconfitte |
553 (17,91%) |
8.194 |
Fatti |
5.378 |
4.459 |
Subiti |
2.910 |
C. Europee |
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Era 3 pti (uff.) |
512 |
Giocate |
1.557 |
281 (54,88%) |
Vittorie |
927 (59,54%) |
113 (22,07%) |
Pareggi |
369 (23,70%) |
118 (23,05%) |
Sconfitte |
261 (16,76%) |
871 |
Fatti |
2.737 |
472 |
Subiti |
1.378 |
Tutti i numeri della Juventus |
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Pubblicato il 26.12.2010
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Mario Varglien (I°)
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di Bidescu
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Raccontava: «La maglia della mia vita ha avuto due soli colori, il bianco ed il nero ed era a strisce. Adesso tutti quelli che non mi conoscono penseranno che io sono nato alla Juventus ed alla Juventus sono morto, come calciatore, s’intende. Allora mi accorgo che devo precisare. Non sono cresciuto alla Juventus, io sono di Fiume. I primi calci, lo sapete, si tirano senza importanza, sin da bambini. Se uno, però, è destinato a fare il calciatore di professione, ecco che prima o poi arrivano i suoi primi, calci ufficiali. Per me questi sono arrivati che avevo sedici o diciassette anni, non lo ricordo con assoluta esattezza, in ogni caso ero un pivello e giocavo per l’Olimpia e Gloria di Fiume e la mia maglia era appunto bianconera, come quella della Juventus. Così ora mi sono in parte già spiegato. Ad un certo momento, Olimpia e Gloria si fusero nella Fiumana: eravamo in serie B. Io gironzolavo di ruolo in ruolo. Ora all’attacco come mezzala, ora in difesa come mediano o centromediano. Ero, come tutti i giovani, in cerca di una posizione stabile, nella vita e nel calcio, che per me era la vita, anche se debbo confessare che ero abbastanza versatile come sportivo praticante: nuotavo discretamente, giocavo a basket, facevo ginnastica. Qualcuno mi diceva che io ero un generico dello sport e che perciò ero destinato a non eccellere in un campo specifico. Io sapevo che il calcio l’avevo nel sangue e, siccome ritengo di essere sempre stato un duro, ancor più verso me stesso che verso gli altri, ho puntato i piedi ed ho vinto la mia battaglia, anche se non è stato facile. Avevo superato da poco i diciassette anni, quando giocai (in maglia azzurra) con la rappresentativa della Venezia Giulia contro quella del Veneto, a Udine. Mi misi in luce, tanto è vera che la Pro Patria, che era stata promossa in serie A, mi acquistò. Ed io, ancora giovanissimo, esordii in serie A, udite udite, con la Pro Patria a Bologna. Il Bologna era Campione d’Italia! Quel giorno, memorabile anche per ì bolognesi, io ero centromediano. Si perdeva, logicamente, si perdeva per 1-0 e fui proprio io che, a sei minuti dalla fine, segnai il goal del pareggio per la Pro. Avevo venti anni, l’età dei sogni di gloria! A casa mia mi dicevano: gioca pure al football, ma devi anche lavorare. Ed io lavoravo in banca, a Busto. Lavoravo, mi allenavo e la domenica giocavo. Poi, nel 1927/28, venne lo scossone decisivo della mia vita: venne a cercarmi la Juventus. Io ero ai sette cieli, mi sembra che fosse umano, ma la Pro Patria non voleva saperne di mollarmi. Mi chiamarono i dirigenti e mi dissero: “Varglien, resti, le daremo quel che le offre la Juventus”. I quattrini non hanno colore, le maglie sì, quella della pur amatissima Pro Patria non valeva quella della Juventus. Mi toccavano tutti sul sentimento, dicevano che sarei dovuto rimanere a Busto, li mi volevano bene. Ero indeciso e, mentre ero indeciso, mi infortunai. La Juventus, intanto, stava aspettando, Quando arrivammo al dunque, seppi che la Pro Patria non era più disposta a mantenere le sue promesse finanziarie. Feci una sola cosa: le valige e me ne tornai a Fiume, ero un tipo abbastanza deciso. Ma, ricordo, il 31 agosto, mi arrivò un telegramma: finalmente era stato ceduto alla Juventus! La Juventus, ora, mi dava meno quattrini, ma a me la cosa non interessava: il passo era fatto e basta, la mia vita aveva avuto la svolta che tanto avevo desiderato. Avevo, in quei giorni, ventidue anni. Venni a Torino, alla Juventus, ed alla Juventus restai quattordici anni, dico quattordici; correva il 1928, l’anno in cui si fondarono le basi definitive della più grande Juventus di tutti i tempi. Io era titolare, mediano destro o sinistro. La Juventus. aveva acquistato anche Orsi e Caligaris: i tre nuovi eravamo noi. Combi, Rosetta e Caligaris, Varglien I, Monti e Bertolini. Con Caligaris e Bertolini che giocavano a sinistra ed erano entrambi tutti destri, con Rosetta e Varglien che giocavano a destra e che preferivano calciare col sinistro! Io, Orsi e Caligaris, i tre novellini, ci facevamo compagnia, avevamo fatto gruppo a sé, ma non tardammo ad inserirci nella grande famiglia che, tutta unita, conquistò i cinque scudetti. Anni, quelli, che non scorderò mai, gli anni migliori della mia vita e della mia carriera. Fra l’altro, una volta giocai in nazionale A, a Roma contro la Francia (e vincemmo 2-1) ed undici o dodici volte giocai in nazionale B».
La Juventus che vinse cinque scudetti consecutivi: «Combi in porta, Rosetta non marca nessuno, io penso all’ala destra, Bertolini all’ala sinistra, Monti marca il centravanti. Se l’avversario che dobbiamo affrontare ha classe, allora la marcatura è seria, altrimenti si gioca come sappiamo noi, ignorando l’avversario. Quando dovevamo giocare contro Sindelar, il compito di marcarlo era mio, perché Monti non lo pigliava mai e s’imbufaliva. Anche Braine e Meazza ci facevano soffrire. Le nostre bestie nere erano la Roma e la Lazio. Io davo del lei anche a Bigatto. Faotto, terzino del Palermo, voleva acciaccare Orsi. Orsi, muovendo il piedino fantastico che aveva, lo azzoppò. Quando si vinceva lo scudetto c’erano serate d’onore al Carignano. Orsi era il più pagato, prendeva mille pesos, cioè 700 Lire al mese più una villa ed un’automobile. Quando il pesos andò giù, la Juventus gli corrispose sempre la stessa cifra».
Di sé raccontava: «Non so che significa classe. Io ho imparato dai campioni dello Spartak che venivano a giocare a Fiume, come Kada, Janda, Kelacef. Mi spaccavo gli occhi per capire come stavano in campo. Ho giocato tante volte centromediano nella conquista dei miei cinque scudetti».
Mario era un combattente nato, che eseguiva il suo lavoro senza disperdersi in azioni confuse ed avventurose, ma incanalava la sua condotta tra le sponde della sagacia, dell’ordine e del rendimento concreto. Era di statura superiore alla media. Morfologicamente apparteneva alla categoria dei giocatori raccolti e compatti come mastini di battaglia, sempre sicuri del balzo utile per addentare la preda, nel nostro caso la palla di cuoio. Stava probabilmente nel suo istintivo e felice tempismo, nel balzo il segreto della sua abilità nello svolgere il gioco di testa: è il tempismo che gli consentiva di anticipare avversari più alti, ma più tardi di lui.
Con la duttilità che solo i giocatori di classe posseggono, Mario Varglien seppe poi trasformarsi da centromediano in mediano laterale e, dotato com’era di scatto e velocità, anche in ala oppure, addirittura, centrattacco. È stato quello che si dice un jolly di gran lusso.
Mario aveva nell’istinto la scelta di tempo necessaria per entrare nel centro dell’attacco in marcia e sapeva realizzare il suggerimento con la prontezza, la sicurezza e, soprattutto, la chiarezza d’accento che distinguevano i veri mediani sistemisti. Il loro paragone con lo stantuffo della locomotiva è pertinente al moto ed alla funzione del loro gioco, ora di spinta alla ruota, ora di trazione per assicurare la continuità d’impulso. Gli giovava molto l’attrezzatura atletica per la quale madre natura lo aveva forgiato; un Varglien robusto, solido, resistente. Sono doti non comuni che, coordinate dall’addestramento e riscaldate dal temperamento, plasmano il classico giocatore di battaglia a buon rendimento quando la partita è piana, a rendimento eccezionale quando la partita è scabrosa.
Diceva: «Dopo ogni allenamento Rosetta andava ad asciugarsi e si curava le scarpe come cose sacre. Monti era sempre troppo serio e andava d’accordo solo con Bertolini. Combi nelle sue uscite dai pali ci terrorizzava. Una volta il suo pugno riuscì a beccare anche me. Rimasi svenuto cinque minuti. Rosetta si portava nella valigia in trasferta per scaramanzia il vestito nero, quello col quale si era sposato. Era un grandissimo giocatore, però nella partita facile si sfaticava. Come terzino faceva in un tempo solo quello che gli altri facevano in due o tre tempi. Passava al volo di prima tutti i palloni. Non ne colpì mai uno di testa. Orsi era simpatico, suonava il violino, mi chiamava spesso al telefono e mi diceva: “ascolta questo tanghito!” Cesarini era una testa pazza, ci faceva ammattire tutti. A fine carriera, ormai nel 1941/42, giocai nella Sanremese, che era una dépendance della Juventus (campionato di guerra) ed infine tornai a Trieste, dove disputai le mie ultime partite. Ricordo quella contro una squadra militare tedesca. Io ero il capitano, con me c’era anche Nereo Rocco. Invasione di campo, calci e pugni: non ci tiravamo indietro! Ho appeso le scarpe al chiodo a trentasei anni, nel 1942. Da allora sono diventato più juventino di prima».
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