Tutte le partite ufficiali della stagione |
G. |
Pti |
Vit |
Par |
Sco |
Fat |
Sub |
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9 |
16 |
4 |
4 |
1 |
12 |
5 |
C |
7 |
15 |
4 |
3 |
0 |
16 |
7 |
F |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
N |
16 |
31 |
8 |
7 |
1 |
28 |
12 |
T |
La Juventus dal 1900 ad oggi |
Gare ufficiali |
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Serie A |
4.579 |
Giocate |
3.088 |
2.508 (54,77%) |
Vittorie |
1.699 (55,02%) |
1.172 (25,60%) |
Pareggi |
836 (27,07%) |
899 (19,63%) |
Sconfitte |
553 (17,91%) |
8.194 |
Fatti |
5.378 |
4.459 |
Subiti |
2.910 |
C. Europee |
|
Era 3 pti (uff.) |
512 |
Giocate |
1.557 |
281 (54,88%) |
Vittorie |
927 (59,54%) |
113 (22,07%) |
Pareggi |
369 (23,70%) |
118 (23,05%) |
Sconfitte |
261 (16,76%) |
871 |
Fatti |
2.737 |
472 |
Subiti |
1.378 |
Tutti i numeri della Juventus |
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Pubblicato il 25.09.2010
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Gianfranco Leoncini
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di Bidescu
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Nasce a Roma il 25 settembre 1939, a due passi da piazza di Spagna, in una casa modesta che guarda l’angolo suggestivo e romantico, dove i turisti di tutto il mondo trascorrono la maggior parte della loro visita alla Capitale. Da ragazzino ci andava anche lui per vedere la gente e gli piaceva correre su e giù per le lunghe scale che dominano l’antica piazza e la monumentale fontana, a due passi da palazzetti che ospitarono personaggi celebri come Byron e Shelley. Aveva, una folta capigliatura bionda, con i riccioli che gli cadevano sulla fronte e lo sguardo vivacissimo. Con i compagni non litigava quasi mai; i loro giochi innocenti consistevano nel gareggiare a chi arrivava prima sulla scalinata di piazza di Spagna. Un giorno come tanti altri di quel febbraio che a Roma ha il tepore della primavera, Gianfranco Leoncini inseguiva il pallone sul tappeto erboso del campo dei Cavalieri di Colombo. Fra lo scarso pubblico c’era “Gigi Peronace”, che osservò il ragazzo dalle folte chiome ed al termine della partita gli parlò a lungo. Poche settimane dopo, Leoncini ricevette una telefonata ed un invito. Doveva recarsi a Torino per essere visionato dai tecnici della Juventus. «Non avevo mai fatto i bagagli prima di quel giorno», racconta Leoncini, «se non per le vacanze estive od una gita di fine settimana. Ma ora avevo di fronte un viaggio lungo ed importante. Non dimenticherò mai quei settecento chilometri di treno dalla Capitale a Torino, né il saluto dei genitori, di mia sorella Rosanna e di mio fratello Manlio. Erano commossi ed io più di loro. Non osavo piangere, ma lo avrei fatto volentieri per sfogare tutte le preoccupazioni che avevo dentro. Un viaggio che mi parve interminabile. Leggevo, passeggiavo nel corridoio, chiacchieravo. Però Torino sembrava dall’altra parte della Terra. Poi, finalmente, ecco la stazione di Porta Nuova, la notte in albergo ed il mattino seguente l’appuntamento al campo. Avete mai provato a prendere a calci un quintale di ferro? Neppure Maciste sarebbe riuscito a spostarlo. Quel mattino col pallone avevo la sensazione di prendere a calci un enorme pallone di ferro». Il provino, invece, risulta positivo. Gianfranco Leoncini tesserato dalla società bianconera, comincia nella città piemontese la sua nuova attività di calciatore professionista. L’esordio, le attese, le paure sono ora un ricordo leggermente sbiadito. Ogni domenica che passa Leoncini si sente più sicuro e forte. La gente, che dapprima guardava con curiosità e perplessità questo nuovo acquisto, finisce col considerarlo uno di casa, un amico fraterno. Leoncini firma il suo primo contratto di calciatore ed entra nelle file della grande società. È stato un balzo notevole; qualcosa come una favola di Cenerentola. Fino a quel giorno la sua attività era limitata ad una squadra di calcio di un rione di Roma: l’Augusta. L’avvenire è incerto, le speranze poche. In casa gli dicono che avrebbe fatto meglio a mettere la testa a partito, cercando qualcosa di più sicuro o nello studio o nel lavoro. Ma Gianfranco abbassa gli occhi e ruba al tempo i sogni. È inglobato nei quadri della prima squadra per la stagione 1958/59; l’anno seguente è già titolare, ma per l’affermazione definitiva, occorre ancora la prova del fuoco, una prestazione che lo consacri qualcosa di più di una semplice speranza per il futuro del calcio bianconero. Tale prova non tarda a venire: a “San Siro” contro il Milan, che in quella stagione è l’avversario numero uno per la conquista del titolo, Gianfranco se la deve vedere con un avversario molto scomodo, Grillo. Il bianconero, non solo collabora validamente alla conquista di una vittoria decisiva per il campionato, ma si laurea giovane campione, vincendo un duello che in partenza sembrava impari. Da allora Leoncini non ha più perso una battuta della sua Juventus, tanto è vero che in bianconero si ferma per dodici anni durante i quali mette insieme 377 partite e 25 goal. Protagonista generoso del centrocampo, anche se in molte occasioni è utilizzato come difensore esterno, mai domo ed in possesso di una volontà feroce, è pedina fondamentale della Juventus del “movimento” di Heriberto Herrera. Un vero stantuffo in campo, propenso all’offensiva, dal momento che il suo tiro lascia sovente il segno, sa anche adoperarsi nel lavoro difensivo con il vigore e l’esuberanza che il ruolo richiede. Con i colori bianconeri lega il suo nome a tre scudetti (1960, 1961 e 1967) e ad altrettante edizioni della Coppa Italia (1959, 1960 e 1965). La Juventus lo cede all’Atalanta nell’estate del 1970, raggiunge in seguito il Mantova e poi torna a Bergamo dove in nerazzurro conclude l’attività. Nel 1966 il commissario tecnico Edmondo Fabbri lo inserisce nell’elenco dei ventidue per lo sfortunato mondiale disputato in Inghilterra. Gioca due partite con la Nazionale A, una con la B e tre con la Giovanile. Un aneddoto, raccontato dallo stesso “Leo”: «Nel 1958, andammo a Parigi per disputare un’amichevole; contro di noi, giocavano Kopa e Fontaine. Per tutti noi quella amichevole costituiva un vero e proprio evento, non come adesso che si va in America, quasi in gita. La sera prima dell’incontro noi giocatori, peccando di professionalità, assistemmo, ad uno spettacolo al “Moulin Rouge”, dove fior di donne si esibivano in costumi succinti. Il giorno della partita furono dolori; alla fine del primo tempo eravamo sotto per 2-0 ed il barone Mazzonis venne nello spogliatoio e ci disse che, se avessimo perso la partita, si sarebbe scoperto quanto avevamo fatto la sera prima. Il barone era preoccupato che la stampa ed i tifosi ci avrebbero criticati per quell’uscita notturna ed avrebbero trascurato il particolare che la divagazione nella notte parigina era del tutto innocente. E temeva che il presidente Umberto, rimasto a Torino per ragioni di lavoro, non gli perdonasse l’imprudenza. Omar si rimboccò le maniche ed i calzettoni, ci trascinò verso un 4-2 trionfale. Facemmo divertire Parigi, in un’atmosfera indimenticabile».
http://ilpalloneracconta.blogspot.com/
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