Catanzaro, Udinese, Juventus, Napoli: la nascita (in tutti i sensi, dai primi vagiti il 24 maggio 1962 ai primi calci, alla serie A con Catanzaro-Milan 0 a 3 del 27 aprile 1980), la prima affermazione fuori casa, la consacrazione, il tramonto. Massimo Mauro alla prima stagione nella Juventus vince subito uno scudetto ed una Coppa Intercontinentale. È uno dei protagonisti del rinnovamento, della squadra che doveva essere sperimentale e che con il suo lungo sprint e qualche affanno ha messo in cassaforte il ventiduesimo titolo italiano. Trapattoni a Talamone, il suo feudo/vacanza, nel luglio 1985, diceva: «Mauro sarà importante. Lo aspetto come uomo cross, ma anche come prezioso elemento di raccordo. Le sue doti di palleggio sono note ormai, con lui e gli altri faremo un buon lavoro». Mauro non è arrivato molto al cross, va detto, ma il lavoro di raccordo in questa Juventus che si è scoperta da sola, partita per partita, è stato via via più importante. Sulla destra della squadra, punto di riferimento costante, puntuale, importante, hanno sempre trovato Mauro. Pronto a ricevere la palla, a difenderla, ad aspettare l’arrivo di supporti, a prendere tempo, a partire. Il fisico robusto lo rende non troppo veloce, ma alla carenza di sprint il bianconero supplisce con la padronanza del palleggio. Chi è, dentro, Massimo Mauro lo ha raccontato a cuore aperto: «Non è un mondo facile, quello del calcio: ti stressa, ti violenta, ti impone gente che non conosci, cerca di importi giochi che non vorresti giocare, e devi stare attento, è facile sbagliare. Se gratti via la superficie è un mondo non più dorato ma difficile, ti devi difendere se ti piace giocare, fare carriera, divertirti in campo. Che poi, a pensarci bene, io mi divertirei solo con undici amici in piazza; alla domenica non sono spensierato, voglio vincere. Sono così, anche da bambino, giocavo alle biglie, spesso vincevo, quando non capitava diventavo una belva, non scherzo. Nel calcio italiano ti diverti se vinci, hai mille responsabilità addosso, se quando giochi pensi a troppe cose meglio starsene in spogliatoio: il segreto del calciatore è riuscire ad isolarsi, per poi entrare dentro, e vincere, e basta. Mondo strano, dicevo, che ha molti lati negativi e molti positivi. La cosa più stupida sono le pagelle con i voti, ma le guardiamo tutti, io per primo, e magari ci rimaniamo male. C’è altro, sì c’è anche altro, a volte compagni che non capisco, a volte un po’ di malinconia. Ma fa parte del gioco, come fa parte del gioco questo giro di trattative, di voci. Io non mi sento carne da macello, se parlano di soldi e di quanto valgo: bene, se mi pagano tanto vorrà dire che guadagnerò di più, io sono entrato nel meccanismo, ho deciso di fare questo mestiere, chi si lamenta e non ama la parola mercato, perché non lo dice chiaro e non fa un’altra cosa ???» Massimo lascia la Juventus nell’estate del 1989, dopo 150 partite, condite con 7 reti. Destinazione Napoli, dove incontrerà il terzo genio della sua carriera: dopo Zico («umiltà, ragionamento e classe, un modello di bravura e di dedizione, un giocatore universale»), Michel Platini («furbo ed intelligente, un uomo squadra che creava il gruppo e lo rendeva unito») ecco Diego Armando Maradona («è stato il calcio e lo trasformava in poesia, nel teatro di ogni meraviglia possibile»). Sotto l’ombra del Vesuvio, Massimo conquista, da protagonista, un altro scudetto e, nel 1993, a soli 31 anni, l’improvviso ritiro. «Dopo aver subito un intervento di ernia al disco», spiega, «la mia schiena non ha più voluto saperne di mettere giudizio ed, inoltre, mi ero accorto di essermi stancato dei ritiri e degli allenamenti».
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