Tra i molti giocatori che, attraverso i tempi, hanno indossato la gloriosa maglia bianconera della Juventus, è doveroso ricordare Pietro Pastore, centravanti di fama nazionale, pura razza patavina, ed al tempo stesso playboy del mondo cinematografico italiano dei tempi passati. Pastore, infatti, oltre al calcio coltivava l’hobby del cinema, essendo in possesso di tutte quelle doti caratteristiche necessarie per arrivare molto in alto. Per cui, se si fosse dedicato effettivamente per intero alla macchina da presa ed ai teatri di posa, avrebbe sicuramente sfondato. Fu in occasione di un concorso indetto da una nota casa cinematografica che Pastore vinse alla grande, più in virtù della sua prorompente avvenenza fisica che altro, imponendosi come l’uomo del giorno con davanti a sé un luminoso avvenire. Come primo film interpreto “La leggenda di Wally” di Orlando Vassallo, avendo come partner una famosa stella dell’epoca, Linda Pini. In seguito, nel 1931 interpretò la parte principale in “Acciaio”, un film ambientato a Terni, diretto dal regista tedesco Walter Ruttman. Questo film fu quello di maggiore successo interpretato da Pastore. In seguito prese parte anche a molte altre pellicole sempre come protagonista, quali “Porto” di Amleto Palermi, “Aldebaran” di Alessandro Blasetti, ed infine uno anche a carattere sportivo: "Io, suo padre" accanto a Clara Calamai, Erminio Spalla ed Enzo Fiermonte. Nato a Padova il 3 aprile 1908, inizia a calciare palloni quando è ancora giovanissimo. Entra nelle file del Padova unitamente ai già quotati campioni che rispondono ai nomi di Lodolo, Barzan, Dahieli, Fajenz, Fagioli, Girani, i fratelli Busini, Vecchina, i fratelli Monti, mettendosi subito in evidenza per le sue doti di cannoniere. Tutte le posizioni, per il biondo Pietro, sono buone per tirare, e le reti fioccano sempre più copiose, La Juventus, che nel campionato 1922-23, ha segnato solamente 31 reti, contro le 61 del Genoa vincitrice del proprio girone, è alla ricerca di un uomo-goal e non si lascia sfuggire l’occasione per accaparrarsi il bel Pietro. A Torino si acclima subito, si adatta all’ambiente perfettamente, la squadra gira a meraviglia, e Pietro segna goals a valanghe. Arriva fino alla Nazionale ed infine, nel 1928 in occasione delle Olimpiadi di Anversa, l’allora C. T. azzurro Cav. Augusto Rangone, convoca anche Pastore per la trasferta in Olanda, dove, però, non gioca nessuna partita. Pietro non se ne duole più di tanto; per lui è già molto essere preso in considerazione per la gita nella terra dei mulini a vento e dei tulipani, per il resto è deciso anche ad attendere giorni migliori. I giocatori italiani erano alloggiati all’ “Hotel Schiller”. Le belle ragazze piacevano ai nostri giocatori e gli azzurri erano di moda. Naturalmente, in cotanta compagnia il super divo era Pietro Pastore, il quale aveva trovato modo di dare all’abito ed al berretto un tono chic differente dagli altri. Guardava le donne con uno sguardo fascinoso, fatale, assassino: testa bassa ed occhi voltati all’insù. I compagni lo chiamavano “Cicca”. “Cicca”, dunque, faceva l’occhiolino a due belle olandesi, auto a disposizione, eleganza abbagliante. In seguito poi si seppe che erano madre e figlia. “Cicca” non sapeva a quale avrebbe concesso i suoi favori. Egli divideva la camera con Magnozzi e, complice il motorino livornese, i compagni congiurarono contro di lui. Rossetti prese una bella rosa ed andò a metterla sotto il guanciale del divo. Dal buco della serratura, dove fra i giocatori italiani si era formata una vera coda di curiosi, si vide Pastore prendere la rosa, baciarla, rimetterla sotto il guanciale, addormentandosi in quel modo. E così di seguito per alcune sere. Pastore andava ripetendo agli amici che una delle due, o madre o figlia, gli voleva bene, oppure addirittura tutte e due. I compagni facevano finta di non crederci per rendere più verosimile lo scherzo. L’ultima sera, prima della partenza, “Cicca” non parlò di rose, non disse nulla. Al posto della rosa porporina, infatti, aveva trovato un topo morto. Nella stagione 1927-28, Pietro è ceduto al Milan, dove rimane per due campionati, per poi nel 1929-30 passare alla Lazio. La Lazio aveva bisogno di un attaccante che avesse classe ed esperienza per dare tono, ed un’impronta particolare alla sua prima linea alquanto anemica in fatto di goals. Pastore, infatti, grazie alle sue doti di sfondatore, ci riuscì in pieno, segnando fior di reti. Nella stagione 1931-32 ritorna al Milan e nel 1933, quando l’Italia dichiara guerra all’Etiopia, i dirigenti giallorossi corsero ai ripari ingaggiando il nostro Pastore rimasto temporaneamente libero da impegni e, così, dopo avere disputato un campionato in Serie B con il Perugia, il bel Pietro ritorna nella capitale, sotto i colori della squadra di Bernardini. Dopo l’esperienza nella Roma, decide di diventare, una volta per tutte, attore ma, dopo alcuni provini e qualche parte di non eccessiva importanza sostenuta in qualche film, Pastore abbandona definitivamente anche questa strada. Si dedica interamente alla sua vita privata, lasciando dietro di sé un’impronta indelebile sia come calciatore, sia come attore.
Così lo ricorda Caminiti: «Combi; Rosetta, Allemandi; Grabbi, Viola, Bigatto; Munerati, Vojak, Pastore, Hirzer, Munerati. È la Juventus che vince il secondo scudetto, e vi gioca un centrattacco innamorato delle stelle. Delle stelle da intendere come dive, miss, passa le ore parlando di Greta Garbo, cucendosi addosso, mentre segna goals che quasi spaccano la rete, nuove parti da primo attore. Si vede attore, si sogna attore. Fa rima con Pastore. È un padovano che la Juventus ha prelevato dalla società calcistica di quella città, non possiede una tecnica vistosa, ma fa goal con benedette ciabattate. La Juventus squadra di calcio ha archiviato le “patronesse”, e prefigura quello che sarà tra breve una macchina da goals. Nel 1923, quando arriva Pietro Pastore, ha già il portiere di tutti i voli in Combi, ingaggia “Viri” Rosetta ed in quattro anni, le quattro stagioni che sono anche di questo padovano, si fa squadrone. L’avvento del presidente Edoardo Agnelli è fondamentale. La parte di Mazzonis dirigente factotum è decisiva per trasferire la realtà dalla teoria alla pratica. Mazzonis è il primo dirigente tecnico della storia. La Juventus, che ingaggia Jeno Karoly, vuole realizzarsi in campo all’altezza del magistero danubiano. Ungheresi sono due suoi pilastri: Viola ed Hirzer; italianissimo è però l’impianto col portiere Combi, veloce come un lampo nella parata in mischia e formidabile anche stilisticamente nella respinta a pugno (nonostante la statura normale rendesse spesso pericolosa per i compagni la sua uscita sempre baldanzosa), con l’eclettico strategico Rosetta, con il fortissimo difensore Allemandi, con il fumaiolo vivente ma anche gran cursore e faticatore Bigatto. In questa compagnia, Pastore innesta il suo scatto e la sua stoccata fegatosa. In 22 partite, nella stagione del secondo scudetto, va a segno 27 goals. Ha un coraggio malandrino nell’avventarsi su tutte le traiettorie, appena possibile tira in porta da qualunque posizione. Lui ci prova, la fortuna e l’estro lo assistono spesso e volentieri. I programmi della Juventus, sempre più ambiziosi, lo escludono in vista del campionato 1927-28. Finisce alla Lazio, con sua soddisfazione, e vi giocherà per tre stagioni, inseguendo il suo sogno dorato. Resterà un sogno. Poche particine e niente di meglio, non diventerà mai l’attore che avrebbe voluto, non incontrerà mai Greta Garbo».
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